The Times They Are a-Changin’
C’è una statua sulla terra polverosa.
Il dio elefante Ganesha alla porta del villaggio alza la proboscide in segno di saluto. Ci avviamo a piedi ed in fila indiana nella patria dell’eroina, la vera dea del Triangolo d’oro. La jungla incombe su di noi, fitta come non mai, incredibilmente chiusa. La cappa di umidità è pazzesca; il sole va e viene, a tratti una pioggerella finissima cade per qualche minuto, poi più nulla. Inzuppati di sudore ascoltiamo il richiamo più recondito di questo luogo pieno di mistero. Il Triangolo d’oro si chiama così perché i lingotti che i trafficanti pagavano per acquistare eroina da queste parti, che dicono sia la più buona e raffinata del mondo, venivano tagliati in due triangoli perfetti prima di consegnarli ai produttori.
Non si solleva neppure un filo di vento e improvvisamente un barrito di un elefante squarcia il silenzio e fa sollevare in cielo decine di uccelli. Poi arrivano le capanne, sotto ad alberi altissimi insistono piccole case in fango e lamiera, con tetti coperti da grandi foglie essiccate. È qui che vivono le cosiddette donne giraffa, note in tutto il mondo per i loro colli lunghissimi, decorati da collari affusolati in ottone che hanno appunto la funzione di rendere sproporzionata questa parte del corpo.
Stanno sedute a gruppi di due sotto tettoie improvvisate, circondate da stracci e piccoli oggetti di artigianato che vendono agli avventori ed ai turisti. Alcune suonano una strana chitarra con quattro corde. Camminiamo con loro senza parlare troppo, alcuni scattano foto, poco più in là un fiume marrone scorre rumoroso. La guida si preoccupa di dirci che Silvester Stallone aveva scelto questo luogo per girare alcune scene del suo Rambo IV. Le donne sono molto belle, ma il contesto puzza di teatrino in funzione dei turisti e conferma quanto questa gente si sia dovuta piegare agli ingranaggi schiaccianti dell’orologio del tempo dell’occidente, sacrificando la propria verginità per provare a stare a galla nel mondo del dollaro.
La voce graffiante del grande Dylan improvvisamente spunta da un angolo di una capanna. Sta cantando “The Times they are a-changin'” da una radiolina nera piccola piccola.
È arrivato anche qui. Nella jungla più profonda la sua voce rauca s’infila nelle nostre camice, nel collare di ottone di queste donne bellissime, nelle nostre scarpe polverose, lungo le rive scoscese del vicino torrente; sfila tra le Nike sbertucciate di un piccolo che ci guarda attentissimo senza dire nulla da una panca in legno a due passi da noi; scorre nella merda delle galline che grufolano sotto questi pezzi legno; fa alzare la cresta gialla ad uno strano uccellino che se ne sta appollaiato su un ramo di una palma. La voce di Dylan suona come una sveglia che viene da lontanissimo ma che poi in realtà non scuote nè noi nè queste povere donne.
Hanno collari in ottone perché frutto di tradizioni secolari che si tramandano da una generazione all’altra, hanno lineamenti unici sulla terra, ma in mezzo a questa jungla che nasconde l’eroina, in mezzo a questa jungla un po’ amara e bastarda, se ne stanno sedute nelle loro capanne come in vetrina per uomini che vengono da molto lontano come noi con l’unico obiettivo di far marciare il dollaro.
Una foto con loro ha giustamente, nella loro logica, un prezzo; non importa poi se dietro al collare c’è nascosto da qualche parte un fazzoletto strappato di Dolce e Gabbana accanto ad una maglietta di Beckham. Così va la vita fratello.
La verità è che l’occidente ha mangiato tutto ciò che poteva fino ad inquinare il sangue di etnie sperdute nelle foreste tropicali. Non da quindici o vent’anni, ma da secoli e secoli.
Queste piccole figlie della foresta sono soltanto uno dei tantissimi esempi di quanto questa terra sia stata devastata dalla nostra storta cultura, dalla nostra prevaricazione, dalla nostra arroganza, dalla nostra prepotenza, dalla nostra sete di soldi e potere, dal nostro disperato bisogno di conquista che forse un domani potrebbe rendere inutile la nostra stessa esistenza sulla terra annullando la grandezza della diversità.
Io non ricordo da bambino, alla radio della macelleria del nonno, il sabato mattina, vicino all’inferriata della finestra, di aver mai ascoltato la voce graffiante di un menestrello qualunque di una terra vicina a Chang Mai. Non ricordo di aver mai indossato magliette che riportavano nomi di bibite della Nuova Guinea oppure del Myanmar.
Poco fa abbiamo visto in un campo non lontano da qui decine di elefanti addestrati come cani che giocano a calcio, a basket e che dipingono quadri con paesaggi naturalistici.
Io non ricordo di avere mai visto addestrare in Toscana gruppi di cinghiali in maschera che giocano a cricket indiano per far divertire gruppi di turisti del mite Vietnam.
No. Non ho mai visto tutto questo da noi, ma qui si, qui l’ho visto. Qui ed in altri posti del terzo mondo in questo ed in altri continenti.
Stiamo facendo a pezzi un mondo che lentamente muore.
“Vi e’ molto di folle nella vostra cosiddetta civiltà – disse una volta Bufalo che cammina, indiano d’America -. Come pazzi voi uomini bianchi correte dietro al denaro, fino a che non ne avete così tanto, che non potete vivere abbastanza a lungo per spenderlo. Voi saccheggiate i boschi e la terra, sprecate i combustibili naturali, come se dopo di voi non venisse piu’ alcuna generazione, che ha altrettanto bisogno di tutto questo. Voi parlate sempre di un mondo migliore, mentre costruite bombe sempre piu’ potenti, per distruggere quel mondo che ora avete”.
Era la fine dell’Ottocento. Ma da allora le cose per molti versi sono peggiorate e la via del ritorno è molto lontana. I perché di tutto questo stanno molto in profondità e sono enormi per poter essere rinchiusi in questo misero post, soprattutto da me.
Ma leggendo gli sguardi dei miei giovani compagni di viaggio traspira la stessa identica cosa. Lo stesso sogno. La necessità di restituire l’autenticità, l’originalità ed il rispetto a qualsiasi luogo di questo mondo. Dovunque esso sia.
Francesco, mio tenero cameraman, tecnico e soprattutto amico mi guarda e sospira. Poi osserva il piccolo con la maglietta di Beckham e le scarpe rotte della Nike, mentre se ne sta seduto sulla vicina panca in legno, a due passi dalle galline.
“Ma quando avremo omologato ogni angolo della terra che senso avrà stare al mondo?” Mi chiede. La risposta non c’è, sta nel vento. Avrebbe risposto Dylan, che ora invece sta concludendo la sua “The Times they are a-changin'” con dolcezza. Penso a quando Toro Seduto disse: “Quando l’ultima fiamma sarà spenta, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce catturato, allora capirete che non si può mangiare denaro”. Silenzio. Vento tra le fronde dei palmeti.
“Il primo ora sarà l’ultimo poi, perché i tempi stanno cambiando”. Dylan ha chiuso così il suo struggente pezzo. La radio si ferma. Un nuovo barrito di un elefante squarcia la pace della foresta.
Alla porta del villaggio la statua di Ganesha ci saluta.
Ma se l’elefante lo considerano un Dio, perché lo hanno reso ridicolo a tal punto da farlo giocare a pallone per noi?
Spero maledettamente che il vecchio Dylan avesse ragione. Forse i venti un giorno cambieranno.
Tra due giorni un aereo ci riporterà lontano lontano da qui. Il mio sogno è che nessuno dimentichi.
Ci voglio credere.
filippo boni