Gatti randagi [reportage di Eugenia dell’Aiuto]
Quando parti abbandoni tutto a casa.
Ci lasci il tuo lavoro, la tua posizione nella società, ci lasci le storie vecchie che ti hanno dato mille amarezze.
Ti disfai della scrivania che hai sempre sotto agli occhi, delle scale che sali tutti i giorni, delle strade in cui cammini e che ti appaiono all’improvviso troppo piccole.
Abbandoni lì quasi anche tutti gli anni che hai.
Rimangono solo il tuo nome, la tua valigia, tutto il mondo che hai dentro. Prendi e vai, a chissà quanti chilometri di distanza, perché non li conti mai, non sono quelli che importano, non sono quelli che fanno un viaggio.
C’è sempre un motivo per il quale si parte. Si affidano ad un aereo non solo la valigia, non solo un corpo che respira, ma anche, spesso, tutta una vita. Viaggiare è, per molti, azzerare e ricominciare. E’ un modo per ritrovarsi in una terra dove si è solo sé stessi, è un modo per tornare ad innamorarsi del mondo.
Spesso ho pensato alla vita un po’ come ad un orologio; a volte è difettoso, si blocca, si ferma, fa schifo. Ma poi comincia di nuovo ad ingranare. I meccanismi fanno clic-clac piano piano, uno dopo l’altro, e le lancette ricominciano a segnare l’ora giusta. Non è detto che ci sia una ragione concreta per la quale tutto sia ripartito: può essere che quell’orologio tu te lo sia tolto, tu lo abbia infilato in un cassetto perché non andava più, non lo
volevi più vedere, e poi un giorno, mentre ,sempre in quel cassetto, hai cercato le chiavi della macchina, una bolletta da pagare, un accendino, l’hai ritrovato sotto mille cose, l’hai preso in mano e ti sei accorto che si muoveva di nuovo. Ho scritto che spesso non c’è una ragione effettiva per cui accade tutto questo.
E’ vero. Tuttavia, il più delle volte a quella ragione diamo forma concreta con il viaggio, al quale si aggrappa tutta la nostra speranza, nel quale riponiamo tutto il nostro desiderio di quiete. E in genere funziona.
Ho visto posti incredibili e respirato gli odori più diversi, e sebbene adesso ricordi per filo e per segno ogni giornata, ogni ora, ogni nome, so che tra qualche anno, a rimanermi impressi, saranno i colori sgargianti, gli occhi buoni e il suono della lingua di quella gente.
Per me la Thailandia è stata l’emozione di camminare scalza in un tempio che profumava di incenso. Ricordo come i colori pastello dei fiori di Loto con cui le persone pregavano si sposassero in maniera perfetta con l’oro delle pareti e del grande Buddha che stava seduto in mezzo alla stanza. Lì mi sono sentita veramente lontana da casa, in una terra della quale mai mi sarei potuta sentire parte ma che in quel momento era davanti a me,in tutto il suo splendore, per essere ammirata.
Mi è piaciuto non avere una casa e, allo stesso tempo, trovarla in ogni momento.
Casa è stata il pullman nel quale tante volte ci siamo rifugiati, stanchi e sudati, dove ci siamo tolti le scarpe e sdraiati nei modi più strani per acchiappare n sogno , dove abbiamo cantato, dove ci siamo chiusi nei nostri pensieri guardando dal finestrino e perdendoci nello spettacolo che ci correva accanto, di un verde rigoglioso puntellato di tante piccole casine, in legno, in cemento, nel fango, un po’ a pezzi, sapendo che non le avremmo mai ritrovate da nessun’altra parte.
Casa è stata anche sentire di far parte di un gruppo – un piccolo mondo – che di giorno in giorno andava creandosi; i nostri modi di dire, le nostre battute sempre uguali, le nostre canzoni, e poi i movimenti e le voci, così riconoscibili, di uno o di un altro, prendevano il sapore di squadra mentre le ore passavano. In quel piccolo universo privato non avevamo radici, e casa, in terra straniera, eravamo noi stessi.
Quando si viaggia si è un po’ dei gatti randagi. Ci si lava poco, non ci si preoccupa di quel che si indossa, si mangia quel che ci viene offerto, ci si adatta a tutto quello che può capitare, così che a sera, quando un hotel offre una comoda doccia, tolti i vestiti, sulla pelle e sulle mani l’odore del viaggio ancora rimane, e parla di tutti i posti che gli occhi hanno visto in quella giornata. Poi ci si lava e via, si è pronti e freschi per accoglierne una nuova. Proprio per questo mi è piaciuto anche sporcarmi.
Mi è piaciuto sentire i miei capelli volare in tuk-tuk, urlare e ridere per la velocità con la quale un signore thailandese, a vedersi così pacato e gentile, ci conduceva per le vie di Bangkok.
E’ difficile avere nuovi orizzonti quando si è confinati in una casa di città, tutta muro e finestre. Quando si viaggia le strade sembrano più grandi, le cose più odorose, i suoni più squillanti, e spesso si ha la sensazione di vedere davvero, dopo tanto tempo che non lo si faceva più; gli occhi si posano sulle cose con curiosità, a volte con brama, quasi volessero mangiarle, catturare per sempre quelle facce, quei posti, che più si guardano più sembrano sfuggire meno, e più facile sembra potersele portare a casa.
A viaggiare i problemi si semplificano, alcuni fastidi scompaiono dietro ad una risata, vengono idee belle e anche un po’ bambine, magari geniali, che chissà perché in città non spuntano fuori mai.
Quando si viaggia e si incontrano tanti sguardi, così diversi dal nostro, si capisce una cosa: che al mondo si sopravvive tutti, si cerca tutti un modo per inventarsi la felicità.
In una mattina speciale la sveglia è stata molto presto: dovevamo andare a donare il cibo ai monaci buddhisti, che abbiamo trovato scalzi e tutti in fila per la strada, con le tuniche arancio e le ciotole di metallo, così belli e seri, quasi fossero personaggi di un cartone.
Qualche ora dopo abbiamo conosciuto uno di loro, si chiamava ” Key-Key”, era orfano e molto giovane, ma il suo sorriso e la gioia che contenevano i suoi occhi non raccontavano niente di tutto questo: dicevano piuttosto quanto amasse la sua semplice vita, quanto fosse sereno. ” Poco dopo che morirono i miei genitori dovetti diventare monaco, per avere assicurati il cibo e un letto per dormire. Non capivo, non volevo, e mi sentivo terribilmente solo. Poi col tempo tutto è cambiato e adesso so che la mia famiglia è grande, perché considero fratello chiunque mi stia intorno, chieda il mio aiuto, mi dimostri affetto. E non sono mai solo. ” ricordo che disse tutto questo con il suo inglese, che diventava, nella sua bocca, melodioso come la lingua Thai. Poco dopo abbiamo deciso di fargli qualche domanda, e mentre tremavo tenendo il microfono in mano ha aggiunto: ” Non esiste un sangue giallo, uno bianco, uno nero…come non esiste una sostanziale differenza tra uomo e donna, tra essere umano e animale. Siamo tutti fatti di una stessa essenza, siamo tutti parte dell’energia della Terra, che si distribuisce di qua e di là. Questo è uno dei pensieri della filosofia buddista.”
Era vero.
Lo guardavo ed aveva gli occhi a mandorla, una tunica arancione, i piedi scalzi, la Mala al collo, ma era umano come me, cercava anche lui, lì in quel tempio sperduto della Thailandia, il suo pezzetto di felicità.
Anche io, come Key -Key, viaggiando, nonostante ogni sera cambiassi letto in cui dormire, mi sono sentita meno sola che a casa, molto più parte di questo enorme, immenso mondo fatto di un’unica energia.
Non dimenticherò mai nè lui e l’atmosfera che è riuscito a creare, nè il silenzio che regnava nel Pullman qualche decina di minuti dopo averlo salutato.
A tutti quelli che incontro e che mi chiedono come sia la Thailandia rispondo sempre nello stesso modo : “un altro mondo”.
Ho avuto l’impressione di essere staccata dalla realtà per tredici giorni; questa irrompeva soltanto la sera, nei nostri discorsi sui divanetti degli hotel, o sulle sdraio a bordo piscina. Lì, da viaggiatori sognanti e un po’ bambini, ci trasformavamo in adulti critici, aspiranti giornalisti, opinionisti, che insieme tentavano di districare alcuni dei nodi che nella società da sempre esistono, ma che, per persone giovani e fiduciose, e forse troppo ottimiste, un giorno non ci sarebbero state più.
So che quello che ho vissuto non potrò mai trasmetterlo con le parole mai a nessuno fino in fondo, perché le cose più belle sono anche le più difficili da definire. Le parole hanno la capacità di rendere migliore tutto quanto, escluso ciò che di per sé è già compiutamente nobile e bello. So tuttavia che ci sono dieci persone con le quali potrò capirmi. Parleremo della Thailandia con lo stesso linguaggio, e nella mente avremo le stesse immagini.
Oggi, in questo mondo occidentale, mi porto dentro l’Asia e la ritrovo in quel che posso: quando incontro per strada un bel viso dagli occhi allungati, la bocca carnosa e la pelle un po’ scura. Quando sento il profumo di incenso, quando tento di imitare uno dei loro piatti tipici nella mia cucina.
L’Asia è sempre con me e arricchisce la mia Europa.