Il quarto principe di Serendip [reportage di Viviana Osenga]
Ho davanti a me una pagina bianca, una valigia aperta ancora da svuotare e che tra poco dovrà essere riempita di nuovo e il riflesso di me allo specchio con i capelli schiariti dal sole e la testa piena di pensieri. Sono a casa da poco più di ventiquattro ore e ho già cercato di raccontare questa esperienza in mille modi diversi, sempre però con la sensazione di non riuscire a trasmettere quanto mi abbia toccato e colpito veramente. Forse perché le emozioni sono difficilmente traducibili a parole, ma il non riuscire a tradurre qualcosa è una sensazione che una persona che studia lingue straniere come me può difficilmente tollerare.
Ultimamente il destino mi ha messo spesso una valigia in mano, molte sono state le volte in cui sono partita senza sapere bene cosa aspettarmi, semplicemente facendomi trascinare dagli eventi e fiduciosa che oltre la soglia del cielo, superata senza troppa difficoltà da un volo aereo, ci sarebbe stato qualcosa di nuovo ad aspettarmi, non necessariamente positivo a tutti gli effetti, ma comunque qualcosa di nuovo per riempire a poco a poco il mio piccolo bagaglio che mi porto dietro da ventitré anni a questa parte e che immagino un po’ come uno zainetto in cui accumulare tutto il necessario per affrontare il viaggio della vita che mi aspetta e mi aspetterà. Quest’ultima esperienza, da cui non sono ancora ritornata del tutto, ha superato le mie aspettative: ha riempito i miei occhi e il mio cuore di meraviglie che ho diligentemente trasferito nello zainetto affinché si trasformino in strumenti utili per affrontare l’avventura quotidiana del futuro.
La prima meraviglia che ho trovato sono stati i miei compagni di viaggio, ventidue esploratori in cerca di tesori; ognuno di noi aveva gli occhi colmi di desideri, di quei desideri che a poco a poco abbiamo iniziato a rivelarci, rivelandoli in primo luogo a noi stessi: desideri ambiziosi, di serenità, di amore, di ricongiungimenti con persone lontane, di viaggi, di scoperte, di capirci qualcosa in tutto questo marasma che sono i nostri vent’anni. Passavamo le giornate a condividere avventure, emozioni, stupori, occhi lucidi e risate e nelle serate ci inoltravamo in cose grosse, a volte buie come la notte, a volte luminose come le stelle; bastava un pensiero di uno di noi, una birra cingalese o l’invenzione di un gioco e diventavamo complici, parlavamo di sogni e frivolezze, ventidue anime unite, le cui differenze diventavano sorprendenti sfumature che davano una tonalità diversa ad ognuno. A volte sembrava ci conoscessimo da sempre, in pochi giorni abbiamo superato barriere che spesso sono difficili da abbattere in una vita intera, forse la lontananza da casa, il fatto di non essere circondati dalle nostre abitudini e dai nostri schemi, oppure il fatto di sapere che avremmo condiviso un periodo brevissimo della nostra giovinezza insieme ha facilitato il nostro incontro, ha fatto crollare dolcemente tutte le barriere che ci poniamo davanti quando conosciamo qualcuno e sappiamo che avremo tutto il tempo del mondo a nostra disposizione. Lì invece ci è bastato il tempo di un viaggio che ci ha uniti, arricchiti e poi separati, forse per sempre o forse no.
La seconda meraviglia che ho scovato racconta di una terra ancora incontaminata, di un’isola ricoperta da palme tropicali da cui spuntano templi in cui riporre le proprie speranze o cercare consolazione per i propri timori. Racconta inoltre di fortezze costruite da antichi re su rocce imponenti che emergono dal nulla e di distese infinite di piantagioni di tè che si riposano sul profilo dolce delle colline. Questa meraviglia parla di elefanti che giocano con aironi bianchi e di scimmiette impertinenti che si rincorrono sulle statue del Buddha; narra di spiagge bianche accarezzate dalla risacca dell’oceano Indiano e di tramonti rosa che ci cullavano e ci prendevano per mano per accompagnarci verso la sera. Nella terra dello Sri Lanka ho trovato qualcosa di magico, per la prima volta ho messo piede in oriente e l’ho trovato leggendario. La vegetazione rigogliosa sembrava la voce della terra che non è ancora stata messa a tacere dalle costruzioni dell’uomo; nella fitta foresta c’era un sentiero di pietre regolari che i monaci avevano accuratamente costruito sotto richiesta della natura che li accoglieva, per decorarla e renderla più accessibile, non per sopraffarla. Le coltivazioni, le risaie, le piantagioni di tè erano perfette nella loro irregolarità, non c’erano angoli netti, forme squadrate, il lavoro dell’uomo si fondeva con quello della natura, in nome di un rispetto supremo verso la terra. Quella terra così sacra che poteva essere calpestata solo a piedi nudi, e allora lasciavi le scarpe e la tua maschera da uomo moderno fuori dal tempio per riscoprire il contatto con il fango, con la sabbia rovente, con le pietre bagnate dalla pioggia e in mezzo a fiumi di umanità venuti a portare offerte agli dei o al Buddha, ritornavi bambino e ti ricoprivi di stupore per assaggiare con tutti e cinque i sensi le sfumature di una nuova civiltà che si dispiegava davanti ai tuoi occhi, dentro alle narici, sotto ai tuoi piedi.
La terza meraviglia che ho messo nello zaino è ora riposta in una tasca sulla quale c’è un’etichetta: “sorrisi”. Sì, i sorrisi, le labbra socchiuse di un popolo che si piegavano a mezzaluna ogni volta che incrociavi il suo sguardo. Abbiamo incontrato un popolo fiero, accogliente e soprattutto sorridente. Era sorridente l’autista, era sorridente la guida (il nostro fedele condottiero Nissanka), era sorridente il maestro di arti marziali ed era sorridente il giovane monaco che si nascondeva dietro la colonna del tempio. Sorridevano le donne che ci accoglievano nei loro villaggi, sorridevano gli uomini che ci servivano il pranzo nelle loro case di campagna, e come sorridevano i bambini quando ci vedevano passare sulle jeep e ci chiamavano e gridavano con tutta la voce che avevano per farsi sentire, per farsi guardare, sventolando al cielo quelle manine che quando erano più coraggiose mandavano baci. “Byeeeee”, gridavano e gli sorridevano le labbra, gli occhi, il cuore e dentro al nostro, di cuore, succedeva di tutto, un misto di stupore, gioia, emozione lo faceva battere più forte e allora appoggiavi gli occhiali da sole sul naso e, con un sorriso grande come un sorriso di bimbo, nascondevi le lacrime che bussavano forte dietro ai tuoi occhi per l’emozione di aver ritrovato dei fratellini dispersi ai confini del mondo.
Tutto ciò e molto altro ancora è quello che ho scovato e raccolto nelle terre di Ceylon, chiamate “Serendip” dagli uomini antichi. C’è un’affascinante leggenda persiana che narra dell’isola di Serendip e di tre suoi principi: i giovani figli del re furono costretti dal padre ad intraprendere un viaggio per provare le loro abilità pratiche ed arricchire la loro esperienza, i tre principi non avevano ben chiare le loro mete, ma durante il cammino si imbatterono in felici scoperte di cose che non stavano cercando, grazie al caso ed alla loro sagacia e intuizione. Da questa fiaba deriva il termine “serendipità” ovvero la casualità benevola, il dono di imbattersi in cose positive mentre non le si stava cercando o di trasformare ogni evento in un insegnamento. In questo mio viaggio nella terra di Serendip ho scoperto di essere il quarto principe, partito per un’avventura con uno zaino in spalla e poche aspettative e imbattutosi in straordinarie scoperte di cose leggendarie e meravigliose.
Viviana Osenga
Stupendo!!!! Bravissima Vivi!!!!!!!!!!!
Meraviglioso
Meraviglioso