Il Tibet Sconosciuto
“Grazie per aver fatto insieme questo viaggio, grazie!” esclama Davide mentre guardiamo il cielo sopra di noi. È una limpida notte di inizio ottobre, a parte il falò alle nostre spalle non ci sono altre fonti di luce e la Via Lattea è nitida sopra di noi. Siamo sull’altopiano tibetano a quota 3000. Abbiamo macinato migliaia di chilometri per vedere un cielo così e non l’avevamo neanche messo in programma. Siamo capitati lì per caso, nella campagna fuori della cittadina sacra di Xiahe, a ballare intorno a un falò sul quale vengono cotti cosciotti d’agnello. Al collo abbiamo una khata bianca, la sciarpa sacra, e nello stomaco grappa d’orzo. Siamo forse gli unici due italiani nella pianura sconfinata, di sicuro i soli a questa festa di pellegrini ebbri venuti dalla capitale Lhasa. Non condividiamo una parola, ma non ci serve. Alcol, cibo e canti sotto le stelle sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
L’agnello è squisito, accompagnato dal pane oleoso che fanno qui e dalle patate bollite per combattere gli effetti dell’alta quota. I pellegrini si fermano a dormire lì nel nulla che abbiamo attraversato quello stesso pomeriggio a cavallo, prima di rifocillarci con tè e burro di yak; ma noi torniamo a Xiahe nell’ostello gestito da una coppia tibeto-olandese. In macchina l’autista e il suo amico intonano canzoni popolari tibetane mentre Davide si esibisce nell’opera nostrana. Io e Xiaohong, l’amica cinese, ce la ridiamo di quel quadretto improponibile. Pensavamo di fare una vacanza qualsiasi, invece ci siamo ritrovati in Tibet Amdo, la regione nord-orientale dell’altopiano. Viaggiare fuori dagli itinerari battuti e senza una guida può far fiorire il mondo in tutta la sua bellezza, ci si addentra nella realtà che non è quella dei depliant delle agenzie turistiche e si viene a contatto con la vita autentica. In viaggio è così che si vivono le migliori esperienze.
Fare amicizia con i locali è addentrarsi ancor più nella loro cultura.
Il giorno precedente eravamo ai limiti del deserto nella polverosa Lanzhou, che si stende lungo le rive del Fiume Giallo, su un terreno arido. Qui si incontrano musulmani Hui e cinesi Han, moschee dalle luci psichedeliche e templi buddhisti nascosti tra le gole. La città è il punto di partenza per la zona est dell’altopiano: qui il governo cinese ha reso autonome le prefetture tibetane delle provincie del Gansu, Sichuan e Yunnan, al confine con la provincia del Tibet. Possiamo visitarle senza permessi speciali né guide, al contrario di Lhasa e Shigatse – il sentiero battuto. Il nostro obiettivo è di scoprire questi luoghi di confine remoti e autentici.
I tibetani sono una civiltà lontana dal mondo che ha sofferto per l’occupazione cinese. Forse è a causa del loro isolamento geografico e politico che amano gli stranieri o forse per pura curiosità. A Shangri-la, ufficialmente nello Yunnan ma geograficamente nel Tibet Kham, i locali dalle guance rosse bruciate dal sole ci guardano con tanto d’occhi e noi facciamo altrettanto. La loro gentilezza, però, è senza confini. Masticano il cinese e chi sa questa lingua può rispondere alle domande della “zia”, come si dice in Cina, in abiti tradizionali e dallo sguardo malinconico, che serve carne di yak in salsa in un ristorante del paese. Da lì, a gambe incrociate sui tappeti tibetani, si ammirano le viuzze con le case colorate e gli stupa nei crocevia, i negozi di tè, le onnipresenti bandiere della preghiera.
Quando la cortesia dei tibetani si unisce al senso degli affari nascono nuove esperienze: siamo sul bus che va dalla cittadina tibetana di Langmusi a Songpan, nell’Amdo, e la nostra vicina coglie due piccioni con una fava: far vedere a degli stranieri come vivono i tibetani e guadagnarci su. Così quella notte ci ritroviamo a dormire nella casa di questa coppia di cantanti. La dimora dispone di tutto, anche di due Mac, ma manca una cosa: il bagno. Quando chiediamo di poterlo usare l’ospite, con nostra sorpresa, ci dice di metterci la giacca e ci conduce in un capanno con due buchi nel terreno a mo’ di gabinetto: è il bagno pubblico del tempio dirimpetto. Preferiamo i cespugli. Riusciamo però a lavarci i denti nella fontanella d’acqua gelida – a ottobre fa già freddo a queste altitudini – e per i piedi gli ospiti riscaldano dell’acqua su una stufa a legna. Il salotto è arredato con manufatti e stoffe tipiche tibetane affiancate dal faccione di Mao Zedong. Sotto il suo viso sereno e inquietante al contempo mangiamo tofu in salsa, verdure bollite, carne di capra con i peperoni, beviamo tè con il burro salato di yak, vino rosso e grappa piccante del Sichuan. Per completare l’esperienza i cantanti ci infilano degli abiti tradizionali e ci scattano migliaia di foto. “Mi raccomando, parlate di noi ai vostri amici stranieri, saremo lieti di ospitarli”. Ritroviamo l’acqua calda per faccia e piedi e il tè col burro di yak anche a colazione, accompagnato dallo zanpa – il porridge tibetano – una focaccia da inzuppare e ancora patate. Carichi di energia seguiamo l’ospite al tempio per far girare le ruote della preghiera con su impressi mantra, dakini e buddha. Siamo pronti per esplorare le meraviglie naturali del Tibet Orientale.
La natura sull’altopiano tibetano:
I luoghi più belli di questa zona sono Jiuzhaigou e Huanglong, politicamente nel Sichuan, il Parco Nazionale di Pudacuo e la gola del Salto della Tigre in Yunnan. In linea d’aria non sono lontani tra loro e costeggiano il confine orientale della provincia proibita.
Raggiungiamo Huanglong – la Valle del dragone Giallo – con la macchina del cantante oltrepassando valichi innevati a quota 5000. Il parco, a 3500 metri, è una valle immersa nel verde al cui centro si susseguono piscine naturali dal colore celeste. Tutt’intorno si snoda un palchetto ligneo che conduce in cima fino a un tempio lamaista dal quale si può ammirare l’intera valle, mentre le acque alpine scivolano da una piscinetta all’altra. È calata la foschia, che ora ricopre parte della visuale e si può solo immaginare dove finisce quel flusso infinito oltre l’orizzonte, perso tra i boschi tibetani.
A un paio d’ore di macchina da Huanglong raggiungiamo Jiuzhaigou. Il parco è enorme e per visitarlo per bene ci sono due opzioni: girarlo in un bus che conduce in fretta nelle zone più gettonate del parco per farsi il selfie di rito o alloggiare lì per 4 giorno e vederselo a piedi. Scegliamo la seconda opzione e scopriamo che oltre a noi ci sono solo pini himalayani, specchi d’acqua e cascatelle. Mulini e bandiere della preghiera sono l’unico segno umano tra i sentieri: tutti gli altri sono sugli autobus turistici.
Più a sud in Tibet Kham, nella provincia dello Yunnan, fuori delle mura del villaggio tibetano di Shangri-la si può noleggiare una macchina per raggiungere il parco nazionale di Pudacuo. Le praterie aride sono popolate da pastori in abiti tradizionali e yak dal pelo lanoso. La loro carne, cucinata in qualsiasi modo – dall’hamburger alle fettine in salsa – è deliziosa. All’interno del parco Pudacuo una navetta conduce fino al lago centrale e lì, purtroppo in mezzo a centinaia di altri turisti, si segue una passerella di legno che circumnaviga lo specchio d’acqua nel quale si riflettono il cielo plumbeo e gli abeti. Sui loro aghi luccicano gocce di pioggerella che in Tibet cade spesso e volentieri.
Da Shangri-la in 3 ore di autobus, dove aver sfiorato la morte sul terreno friabile, raggiungiamo la gola del Salto della Tigre. Ovvero, smontiamo in una via fangosa che costituisce il villaggio sperduto di Qiaotou. Ora la pioggia è più forte, mi avvolgo la sciarpa attorno al capo e vado alla ricerca di un autista per raggiungere la gola. Chiacchieriamo in un simil-cinese: io stento a capire le sue parole smozzicate e lui fa fatica con il mio cinese-italiano. In ogni caso ci porta alla gola e ci tornerà a prendere come concordato. Qui, dall’alto della roccia sormontata dalla statua di una tigre, ammiro il Fiume Giallo che scroscia impetuoso tra le rocce che si restringono. Parte dall’Himalaya e arriva fino al Mar Giallo, attraversando tutto il Paese. È sulle sue sponde che è nata la millenaria civiltà cinese: mi sento come al cospetto di un dio.
È possibile percorrere parte della gola in un trekking di due giorni. All’inizio è dura, in quanto si raggiunge il crinale superiore percorrendo 28 tornanti, poi si discende fino a metà, all’Halfway Guesthouse. Il giorno dopo il sentiero è più regolare, ma scavato nel lato della montagna e senza parapetti di sicurezza. Bisogna essere molto prudenti poiché a volte capitano incidenti.
I peggiori guidatori del mondo Tibet
Anche spostarsi da un luogo all’altro in Tibet non è cosa da fare a cuor leggero: sia i bus che le baoche – le macchine condivise – percorrono strade di montagna superandosi nei tornanti e a ogni curva immagino il veicolo volare giù nello strapiombo. D’altro lato i panorami regalano viste di monti ammantati di neve e le valli sono coperte di foschia come fosse bambagia. Sono in bilico tra il terrore e l’incanto.
In questo viaggio me la vedo brutta più di una volta, specie all’inizio e alla fine: ci fermiamo in un punto imprecisato dell’altopiano tra Xiahe e Langmusi per riposarci e inciampo in un groviglio di fil di ferro, storcendomi una caviglia. L’infortunio mi viene curato da alcuni passeggeri della baoche che mi infilano il piede in un sacchetto di plastica prima di riempirlo di acqua fredda. Serve? No, ma ci facciamo delle risate nonostante il dolore e ho l’occasione di accomodarmi accanto all’autista. Gli chiedo della foto del Dalai Lama appesa allo specchietto retrovisore – sarebbe illegale venerarlo qui in Cina. Mi confessa di aver vissuto per venti anni a Dharamsala dove c’è il governo tibetano in esilio e si lancia in una filippica contro il governo cinese. Spero che nessuno ci senta o potrebbero nascere problemi.
Il secondo incidente avviene sulla strada per la metropoli di Chengdu – la tappa finale a 12 ore dall’altopiano, quando l’autista-ospite-cantante, svoltando nei tornanti come un pazzo, attraversa una mandria e impatta una vacca rompendo lo specchietto laterale.
Templi che sanno di burro di yak
Sopravviviamo al viaggio in Tibet Amdo e Tibet Kham, forse per merito degli dei buddhisti. La spiritualità, lì sul tetto del mondo, permea ogni aspetto della vita quotidiana. Se chiudo gli occhi posso ancora sentire l’odore acre delle candele al burro di yak che ardono nei templi, le khata gialle e bianche al collo degli dei, i monaci che snocciolano il mala, il rosario, e mormorano preghiere in una lingua antica come la loro terra. Non c’è bisogni di andare fino al Potala Palace a Lhasa per vedere gli stupendi monasteri lamaisti: il Songli Monastery, alle porte di Shangri-la, è un complesso antico di quasi quattrocento anni ed è il più grande nel Sud-Ovest della Cina. Viene chiamato il Piccolo Potala ed è facile perdersi tra i suoi corridoi odorosi d’incenso, con i dipinti di demoni spaventosi e le statue di accoppiamenti tantrici. Per un paio d’euro un monaco mi vende un bracciale e mi benedice – ancora quel senso degli affari tibetano. Al suo esterno, davanti all’edificio principale, bandierine colorate sventolano sulla distesa infinita dell’altopiano accompagnate dal suono di campanelle. Il secondo complesso religioso del Paese è il Labrang Monastery di Xiahe. Costituisce un villaggio nel villaggio ed è abitato da monaci in toga rossa e dalle guance rubizze. Qui arrivano pellegrini come quelli che ci hanno invitato a ballare attorno al falò, mentre i tibetani più ferventi partono a piedi alla volta della capitale in un viaggio che dura 4 mesi.
La prossima volta andrò anche io a Lhasa – non a piedi, però. Per ora voglio solo scoprire il Tibet sconosciuto, senza guide né permessi speciali, in un luogo dove gli stranieri non arrivano. È percorrendo i sentieri non battuti, mi ripeto, che i luoghi ci mostrano il loro vero aspetto.
Alessandra Nitti – alessandranitti.com