Lo sanno anche i cani – #THAILARCA
“Lo sanno anche i cani, la povertà non abita qua”. Si tocca la gamba all’altezza della caviglia e sorride. Il cielo plumbeo di fine agosto incombe con nubi cariche di pioggia sopra alle nostre teste annebbiate dai pensieri e dalle preghiere di decine di bambini che ogni mattina arrivano qui al tempio, per pregare senza fare rumore. Si spostano come piccole formiche ai nostri piedi, ordinatamente, in fila, con divise blu intenso oppure arancio cangiante. Ci guardano, sorridono, poi si inginocchiano e con mani unite verso l’alto si toccano la punta del naso e tacciono.
“La povertà non abita qua”. Narratipe, la nostra guida thailandese che si fa chiamare Felice, ripete la frase come un mantra, mentre la puzza di piedi sale dal tappeto sul quale camminiamo.
Davanti a noi, in un tempio in legno dipinto di rosso con decorazioni dorate, un Buddha enorme e pacifico, ci osserva dall’alto dei suoi venti metri. Il silenzio vince. Ma non è un silenzio vuoto, è un silenzio fecondo di pieni.
“La povertà non abita qua, tu puoi decidere di capire oppure di non capire, di credere o di non credere, questo principio viene da dentro di te”.
Il contrasto fra tecnologia imperante come lo wi fi che ci accompagna dovunque nel pullman e le baracche di lamiera dove vivono nella Thailandia più profonda migliaia di famiglie, quel contrasto, è vivo dappertutto. Ma il volto ebbro di gioia di questi bambini che pregano mette a dura prova i principi di un’esistenza apparentemente colma di tutto in un occidente tristemente vuoto.
Il fumo e il profumo dell’incenso ti entrano nelle narici a tal punto da divenire acri, le candele accese si succedono una dopo l’altra colanti di cera, i ragazzi tacciono, in lontananza una strana litania si alza verso il cielo, dalle vicine porte un vento leggero rompe una calca di umidità pazzesca che a fatica ti permette di respirare.
Siamo scalzi, in silenzio, con una nuvola di bambini poveri e sorridenti di fronte che pregano, con un monaco vestito solo del suo saio arancio alle nostre spalle, con la voglia di capire e la paura di non poterci riuscire. Il mattino se ne sta andando.
Faccio due passi nel brusio delle preghiere, quando colgo per caso tra una colonna bucherellata e un panno in tessuto scuro un gruppo di qualche italiano che parla con un uomo, forse un’altra guida, che parla la nostra lingua ma che ovviamente è un locale.
L’uomo sta raccontando una storia.
“Voi vi chiedete perché molta della nostra gente è povera ma felice, ma voi non capite vero?”, dice masticando una foglia verde in bocca fra due grandi incisivi.
Ha i capelli pettinati accuratamente di lato, un po’ unti, un solo dente nell’arcata inferiore, un paio di infradito e pantaloni corti. Il gruppo che lo segue lo ascolta in silenzio sotto un loggiato in legno, di fronte ad una statua in pietra di un guerriero con barba lunga e spada.
“La nostra vera ricchezza è l’imperfezione – prosegue -, perché nel nostro poco fiorisce la bellezza. Un’anziana donna aveva due grandi vasi, ciascuno sospeso all’estremità di un palo che lei portava sulle spalle.
Uno dei vasi aveva una crepa, mentre l’altro era perfetto, ed era sempre pieno d’acqua alla fine della lunga camminata dal ruscello a casa, mentre quello crepato arrivava mezzo vuoto. Per due anni interi andò avanti così, con la donna che portava a casa solo un vaso e mezzo d’acqua.
Naturalmente, il vaso perfetto era orgoglioso dei propri risultati. Ma il povero vaso crepato si vergognava del proprio difetto, ed era avvilito di saper fare solo la metà di ciò per cui era stato fatto. Dopo due anni che si rendeva conto del proprio amaro fallimento, un giorno parlò alla donna lungo il cammino: “Mi vergogno di me stesso, perché questa crepa nel mio fianco fa sì che l’acqua fuoriesca lungo tutta la strada verso la vostra casa”. La vecchia sorrise: ” Ti sei accorto che ci sono dei fiori dalla tua parte del sentiero, ma non dalla parte dell’altro vaso? È perché io ho sempre saputo del tuo difetto, perciò ho piantato semi di fiori dal tuo lato del sentiero ed ogni giorno, mentre tornavamo, tu li innaffiavi.
Se tu non fossi stato come sei, nessuno avrebbe goduto del profumo di quei fiori, nessuno li avrebbe portati a casa lungo questa strada, nessuno avrebbe colto il seme della bellezza grazie a te”.
Silenzio. L’uomo tace e nessun altro ripete più nulla. Il vento si fa più forte, a pochi metri da me i bambini continuano a sorridere con le mani giunte.
Gli altri sono sparpagliati nel tempio.
“Qua non esiste la povertà”.
Quella frase rimbalza ancora più chiara insieme ad un cane spelacchiato e malconcio che attraversa la strada.
Ha tre zampe, una persa chissà quando e perché, ma non smette di correre dietro al suo piccolo proprietario nel fango del campo vicino tra una palma e qualche bottiglia vuota.
Filippo Boni